La strada di Filippo

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Stavo pensando all’inizio del film “About a boy”, in cui Hugh Grant, nella parte dello scapolo impenitente, espone la teoria dell’isola: ogni uomo è un’isola, lontana dalle altre, e solo ogni tanto ha bisogno di toccare la terraferma. Al personaggio di Hugh Grant ci vuole tutto il film, e la riscoperta del senso della vita nel rapporto con un bambino in difficoltà, per capire che questa storia dell’isola non funziona, e arrivare alla teoria modificata, cioè che gli uomini fanno parte di un arcipelago, in cui le isole sono collegate sotto il mare; a me  basta una giornata come quella appena passata per capirlo. O meglio, per averne conferma.

Ho  le gambe a  pezzi, gli occhi rossi, i piedi doloranti; ho combattuto contro la guarnizione vecchia di secoli di una caffettiera da dodici, e ho ancora nelle narici l’odore dei caffè preparati; ho negli occhi i visi di migliaia di persone, sulla pelle la sensazione del freddo, e della dolcezza del sole; ho nelle orecchie il canto gregoriano e l’organo, le voci degli amici, il suono delle campane nel giorno di festa. Perché il giorno di San Filippo, appena passato, non è un giorno come gli altri, chi frequenta un po’ questo blog lo sa; è il giorno in cui si torna bambini, in cui il cuore si allarga nel senso di stupore e gratitudine, gli occhi si riempiono di commozione. E’ il giorno in cui ti senti accolto, ti senti figlio, ti senti parte di una comunità, vita unita ad altre vite, il giorno in cui ricordi, ripensi e riparti, in cui rivedi amici scomparsi da anni, come se il tempo non fosse passato.

Ha ragione Thomas Merton, monaco trappista, e prima di lui anche John Donne: “Nessun uomo è un’isola, in sé completa: ognuno è un pezzo di un continente, una parte di un tutto” . Ogni uomo è parte, è inserito in un contesto, in una storia che viene da prima di lui, e che continuerà dopo; essere soli, vivere senza legami e senza riferimenti, è un’ utopia, oltre ad essere molto faticoso. Tutti siamo legati alle realtà che ci hanno preceduto, ripartiamo da lì per costruirci, e i momenti di festa come quello appena passato servono a ricordarcelo e a farci pensare, con dosi diverse di orgoglio e gratitudine, da dove veniamo.

Io vengo da qui, dalle stradine fresche del vecchio centro di Roma, quelli  che fanno da corona a piazza Navona, che la gente scopre ogni giorno, e che per me sono casa. Vengo da strade percorse da migliaia di turisti e pellegrini, ogni giorno, e piene della storia dei secoli, delle opere di commovente bellezza realizzate da artisti celeberrimi, che conosco talmente bene da dare per scontate, quando ci passo davanti di corsa nell’ora di punta, e talmente poco da restare stupita tutte le volte che li guardo con più attenzione. Vengo da strade percorse dai santi, che hanno fatto di questa zona la loro casa; santi che hanno scelto Roma come giardino in cui coltivare la fede, e trasmetterla, e che hanno lasciato a noi testimonianza nella bellezza delle chiese, nella dolcezza delle immagini di Maria, nella tenerezza delle preghiere, nella concretezza dei gesti.

Santi come Filippo Neri, appunto,  che con la vita ci ha insegnato che anche questa parte di Roma può essere zona di missione, di evangelizzazione, di  testimonianza di vita, di fede. E che ha lasciato a noi, che abbiamo la Grazia di entrarci ogni giorno, una chiesa e una comunità di Padri per accoglierci, educarci alla fede, fornirci i mattoni su cui costruire e ricostruire la nostra vita.

No, io non sono un’isola, ma parte di questa terraferma solida, che da più di 400 anni i romani continuano a considerare “nuova”. Anche quest’anno, nel giorno della sua festa,  Filippo me lo ha ricordato.

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