25 anni

ginestra

Forse non ho scelto il momento migliore per ricominciare a scrivere dopo tanto tempo. Forse avrei dovuto aspettare ancora, trovare l’occasione giusta, l’orario più consono, il silenzio, la luce giusta. Cogliere quell’attimo che mi scappa da mesi, insieme a fiumi di parole che dalla mia testa non sono mai uscite, post fantastici e commuoventi rimasti solo nel pensiero. Avrei potuto evitare di cominciare a scrivere al lavoro, con le cuffie sulle orecchie per cercare un minimo di concentrazione.

Ma non mi andava più di aspettare.

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Controcorrente

matrimonio blog Nel 2013 sono stati celebrati in Italia 194.057 matrimoni, 13.081 in meno rispetto al 2012. Ce lo dice l’Istat, indagine pubblicata ieri. Eppure c’è ancora chi, in controtendenza, al  matrimonio ci crede ancora.  

La parola che ho detto più spesso nelle ultime settimane è sicuramente “grazie”. Ai miei famigliari, agli amici, alle persone che ho incontrato, al poliziottone della metro di Washington, e al ranger di quella di Boston. Ad una signora qui sotto, poco fa.

Anche questo è un post per dire grazie, e arriva ad oltre un mese di distanza dall’ultimo. Un periodo di silenzio, in cui non ho scritto volutamente nulla di tutto quello che stava accadendo nella mia vita. Un periodo di silenzio, per finire di organizzare, e poi vivere pienamente la felicità di un matrimonio. Il mio. Continua a leggere

Io mi ricordo

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A distanza di tanti anni, mi ricordo ancora la voce di mio nonno. La ricordo quando parlava al telefono, in un pomeriggio qualsiasi di un inverno come tanti, per me che andavo ancora a scuola ed ero abituata a scandire le ore con il tempo dei compiti; la ricordo in casa, nei momenti di festa, in camera da pranzo e in cucina. Me la ricordo quando rideva, magari prendendoci in giro, e quando chiamava i figli con tenerezza.

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Il bello della zia…ancora

zia Selma

Lo so, l’immagine non è proprio il massimo. La verità è che ho constatato che non esistono, o comunque non mi sono venute in mente, altri tipi di zia “celebri” che non siano un po’ ridicole, come zia Bisbetica in “Brisby e il segreto di Nimh”, o zia PIttypat di “Via col Vento”, oppure zia Sara di “Lilli il Vagabondo” (quella dei gatti siamesi per intenderci). Tutte signore di una certa età, un po’ svampite, zitelle, con la voce gracchiante. Gli zii maschi, invece possono contare su esempi molto più famosi e simpatici, da zio Paperone a zio Fester, passando per zio Sam, zio Buck, zio Reginaldo degli “Aristogatti”.

Comunque anche Selma dei Simpson è una zia, come me. E nell’ultimo periodo il fatto di essere zia è stato ancora più chiaro nelle mie giornate, forse perché ho avuto il nipotino tutti i giorni a casa con me. Ora che questo momento così speciale sta per finire, e il piccolo sta per lasciare la nostra casa, mi sono tornate in mente le riflessioni sulla bellezza della “ziitudine” scritte più di un anno fa. Le ripropongo oggi, perché rileggendole mi hanno risuonato nel cuore, proprio come quando le ho scritte la prima volta. E quindi, anche se non mi piace tornare indietro, rieccovi il “Bello della zia”.

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Sono una zia. Meglio ancora sono una zia a distanza: appartengo cioè a quella categoria di zii che vivono lontani dai nipotini. Esistono diverse connotazioni degli zii a distanza: giovani, meno giovani, sposati e non sposati, con figli o senza. E poi si possono diversificare in base alla distanza stimata dall’amato pargolo: ci sono quelli che vivono a distanza limitata, a distanza considerevole e a distanza estrema. Io appartengo alla categoria base: sono la zia giovane (il vantaggio di essere l’ultima in famiglia è che sei considerato sempre giovane), a distanza limitata, non sposata, senza figli. In pratica tutta rivolta al nipotino. E conosco tanti compagni di avventura, zii a distanza come me, con cui condivido una serie ampia di svantaggi e di grandissimi privilegi.

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Ma tu ci credi ancora?

Erano anni che non li vedevo. Un po’ per prigrizia, un po’ per nostalgia, un po’ perché mi sembra di conoscerli a memoria, i filmini girati da mio padre. Dagli anni ’60 ad oggi, minuti su minuti di girato, in bianco e nero e a colori,  che raccontano feste di famiglia, vacanze al mare, partite di calcetto, e giochi di ragazzi.

Li ho rivisti qualche giorno fa:  bambini diventati grandi, grandi diventati adulti, tanti che non ci sono più; rughe in più e capelli in meno, chili in aggiunta e muscoli guizzanti persi nella nebbia degli anni. E poi il sorriso di mia madre, le mani di mio padre, la fossetta di mia sorella, la mia frangetta perennemente spettinata, i miei zii con i loro amici. Nello stesso tratto di spiaggia, facendo le stesse cose che facciamo oggi. Lacrime di capricci, abbracci di allegria, chitarre in spiaggia, bagni con le mareggiate,  e anche gioie, silenzi, e  tristezze che la cinepresa non racconta, ma gli occhi e la storia di ogni cuore sì. Cose che cambiano e altre sono rimaste uguali nel tempo,  a colori e in bianco e nero.

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Benedetto Benedetto

Nella mia famiglia non si butta niente. Vecchi scontrini, ricevute di pagamenti del 1992, libretti di istruzioni di elettrodomestici usati una volta, vecchie stilografiche, cartoline, guide turistiche degli anni ’70, fotografie, biglietti da visita, partecipazioni di nozze, portachiavi rotti.

L’idea di base è che, prima o poi, tutto può servire.

Mio padre, con cura e attenzione, metteva da parte i giornali che raccontavano eventi speciali:  pagine principali e titoli, come testimonianza della storia, o come ricordo. E io, guardando lui, ho imparato a fare lo stesso. Così quando sette anni fa morì Giovanni Paolo II, comprai tutti i quotidiani possibili, anche quelli che non avevo mai letto prima, solo per vedere come le diverse testate raccontavano quel momento storico. Da allieva diligente ho voluto strafare, e ho acquistato e conservato anche alcuni dei giornali dei giorni successivi, coprendo così anche tutto il periodo del Conclave e l’elezione di Benedetto XVI.

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La barriera

Ho iniziato a scrivere questo post ieri sera, dopo una giornata massacrante. La schiena a pezzi, le gambe doloranti, gli occhi secchi per le troppe ore con le lenti a contatto, l’incapacità di parlare, e di mettere in fila i pensieri. La stanchezza non mi ha permesso di  spostarmi nella zona “blog”, più intima e raccolta, lontana da occhi indiscreti, e così mi sono ritrovata a scrivere sul divano, con troppe luci accese e la tv in sottofondo.

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